Don’t make people into heroes, John.
Heroes don’t exist,
and if they did I wouldn’t be one of them.
Non trasformare le persone in eroi, John.
Gli eroi non esistono,
e se esistessero, io non sarei certo uno di loro.
Forse una delle piu’ belle ( e sono tante) citazioni da quel gioiello che e’ The Great Game, terzo episodio di quella splendida serie che e’ Sherlock, non a caso premiata come miglior serie drammatica agli ultimi Bafta Awards per la televisione, il corrispettivo inglese degli Emmy Awards statunitensi, in cui e’ stato premiato anche Martin Freeman, ( prossimo Bilbo Baggins nello Hobbit di Peter Jackson) per la sua interpretazione di John Watson, cosi’ intensa e ricca di sfumature.
Un dialogo di 30 secondi da appendere in cornice, e studiare a memoria, un dialogo che da solo vale ore di televisione nostrana, per la sua capacita’ di concentrare in cosi’ pochi secondi cosi’ tanti significati.
Infatti in tre battute Benedict Cumberbatch, lo Sherlock piu’ aderente al personaggio di Conan Doyle dai tempi di Basil Rathbone, ci racconta il distacco quasi ascetico e contemporaneamente la profonda passione per il genere umano del suo personaggio, mostrandoci la solitudine del genio e del “diverso” e allo stesso tempo l’umilta’ di considerarsi uno tra tanti.
D’altro canto il Watson di Martin Freeman gioca con la parola deduzione, quasi un sinonimo di Sherlock Holmes, e ci mostra il lato appassionato e compassionevole della coppia, che a tutti gli effetti e’ una qualcosa di molto di piu’ di una coppia di amici, e qualcosa di meno di una coppia di amanti: l’amore tra Sherlock e Watson e’ un amore platonico, una corrispondenza di spiriti, una compensazione di caratteri dove l’uno tende al freddo della ragione e l’altro al calore della passione, ma che in realta’ sono entrambi uniti, malgrado le apparenti differenze, da un’inesauribile interesse per la natura umana, con tutte le sue debolezze e con tutte le sue virtu’.